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Atacama


Raggiungiamo Puno e le sue Islas Flottantes, una serie di 87 isole galleggianti in mezzo alle acque del lago Titicaca: lo scenario è affascinante. Tra un grande canneto che si sperde all'orizzonte, là dove le acque del lago incontrano le Ande, il traghetto si fa largo avvicinandosi alle isole. Ogni isola ha un substrato immerso di un metro o due di torba, pescata dal fondo del lago e tenuta assieme col fil di ferro, su questi vengono stese le canne seccate al sole; anche le abitazioni, le panchine, i tavoli e gli ombrelloni sono fatti di canne secche. In questa zona del lago le isole galleggiano su più di 17 metri d'acqua e ogni volta che un'onda viene alzata da qualche imbarcazione a motore l'isola si muove. Sul fondo le isole sono ancorate, come se fossero delle navi, per impedire che al mattino gli indios che abitano qui si risveglino sulla riva boliviana del lago: “Non abbiamo il passaporto, non abbiamo diritto di passare in Bolivia” dichiara il portavoce della comunità dove attracchiamo con il traghetto. Ogni isola ospita una famiglia, composta a volte da più di una decina di persone. Le isole di Puno sono allineate una accanto all'altra, formando così un grande canale centrale che a me ricorda molto il Canal Grande; d'altra parte anche la Venezia dei pionieri, fatta dalle palafitte e dalle casoni di paglia, doveva molto probabilmente assomigliare a questi luoghi. Puno è la culla della civiltà Inca, la leggenda vuole il primo Inca uscì dalle acque del lago Titicaca per fondare la città. Le isole furono abitate fin dall'antichità dagli Uros, anche se l'ultima discendente della dinastia è morta nel 1959, oggi gli abitanti sono tutti Aymara. Il turismo è il principale mezzo di sostentamento di chi abita qui: “Andiamo a Puno solo il sabato mattina per il mercato” racconta una donna che appartiene a una delle 272 famiglie registrate con l'ultimo censimento “compriamo medicine e riso per tutta la settimana, il resto della nostra dieta si basa sul pesce.” Nonostante la bellezza infinita del posto e la leggenda del primo Inca sorto dalle acque oggi l'attività più proficua è il turismo, una donna anziana ci attira all'interno della sua tenda per proporci di acquistare dei tappeti, all'esterno altre donne ci mettono in mano collanine e statuette. Dobbiamo insistere per rifiutare una gita sulla barca tradizionale: una sorta di gondola gigantesca, con lo scafo a forma di banana e con un baldacchino centrale che parte con i turisti a bordo mentre due donne aymara che cantano “Vamos a la playa”. Adesso si che la sensazione di essere a Venezia è completa.

Scendiamo dalle Ande andando verso Arequipa e il suo bel vulcano di 6'000 metri che si staglia sul panorama della città, le strade con architettura coloniale e le sue numerose chiese. Il giorno seguente arriviamo alla frontiera, la prima della mia vita in cui i bagagli passano attraverso lo scanner in cerca di frutta e verdura: siamo a Moquegua, capitale locale del mercato ortofrutticolo. I prodotti di Moquegua vengono venduti all'estero: Cile, Stati Uniti, Giappone, Corea, i controlli servono per garantire gli standard igenico sanitari richiesti dal mercato internazionale. In questa maniera nessuna mosca della frutta entrerà nella regione. Mentre i bagagli passano uno ad uno sotto lo scanner un video di agricoltori locali spiega i vantaggi di una prassi così severa. Mi riecheggiano nella testa le parole: “Compagni contadini e cari visitatori... enormi vantaggi economici per tutti... entrare nel mercato internazionale...”.

Poche ore dopo attraversiamo anche la frontiera vera e propria, qui il questionario d'ingresso in Cile chiede se abbiamo con noi prodotti di origine vegetale o animale di qualsiasi tipo, dimentico di menzionare il mezzo litro di olio d'oliva che ho nello zaino, vado diretto dal doganiere per spiegargli l'errore nel formulario quando vedo addetti del ministero dell'agricoltura far aprire zaini e bagagli ad altre macchine, qualcuno nell'autobus vocifera di possibili multe. Il doganiere, seduto su di uno sgabello, alza lo sguardo da sotto il cappello da baseball, scrolla le spalle, mi strappa di mano il formulario e mi dice senza troppi giri di parole che non gliene importa nulla della verdura.

Siamo in Cile! le differenze con Perù e Bolivia saltano lampanti agli occhi appena raggiungiamo la periferia di Arica, la prima città del nord: grandi palazzine a schiera con gli intonaci gialli e rossi che si stendono ordinatamente accanto alla strada, dalle terrazze aperte filtrano le luci di serate in famiglia o tra amici, vedo tavole imbandite, bottiglie di vino, grandi schermi per la televisione. Per strada sono parcheggiate auto di media e grossa cilindrata. Dopo un mese di Ande per noi questo è un altro mondo, così come ci sembrano diversi anche i cileni: Antonio fa il tassista abusivo, in cinque minuti riesce a raccontarci l'intera storia della sua famiglia, ci consiglia anche i migliori locali e spiagge della città. A dir poco loquace.

Finalmente abbiamo raggiunto l'Oceano Pacifico. Le acque si infrangono con onde potenti sui frangiflutti di cemento. L'aria puzza di pesce, il cielo è completamente nero, così come l'oceano, macchiato solo dagli spruzzi di schiuma bianca. Siamo alla metà del nostro viaggio, abbiamo appena completato la traversata dall'Atlantico al Pacifico tagliando il Sud America in due come se fosse una mela e a partire da oggi il nostro viaggio cambia: basta autobus e treni, basta appuntamenti. Da oggi continuiamo in autostop, lasciandoci trasportare dal viaggio, dalla strada e dalle gente del posto. Abbiamo ancora un mese prima di dover ritornare a Rio de Janeiro, una cordigliera e la Patagonia in cui andare a zonzo. Apriamo la tenda su di un piccolo parco a pochi metri dall'Oceano, sotto a una enorme rupe di qualche decina di metri sulla cui sommità planano una decina di condor delle Ande, ci addormentiamo con l'odore di pesce e sale.

Inizia la nostra discesa del deserto dell'Atacama: una delle regioni più aride al mondo, in certe zone non piove da più di 140 anni, in altre non è mai stata registrata nessuna precipitazione. Una regione che fino al 1880 apparteneva alla Bolivia e che è diventata cilena con la Guerra del Pacifico. L'Atacama, con le sue immense risorse minerarie, è oggi il motore portante dell'economia cilena. La più grande miniera a cielo aperto di rame del mondo è qui, a Chuquicamata. Tiriamo fuori i pollice e un'ora dopo si ferma facendo un gran novolone di polvere un grande Volvo rosso, è il camion di Jorge, con lui passeremo il resto del pomeriggio.

Mentre il camion prosegue senza soste il clima si fa completamente arido, attorno all'infinita strada rettilinea si stendono sabbia e sassi fino all'orizzonte, le temperature si alzano di giorno per abbassarsi velocemente la notte. Da una parte e dall'altra circolano grandi camion con cabine all'americana, sembra di essere negli States, anche le rare aree di servizio ci danno questa impressione: piccoli bar con sgabelli alti inchiodati al suolo e allineati di fronte al bancone, caffè bollente, uova fritte e patate fritte con ketchup. Manca solo il cappello alla texana. Jorge trasporta quintali di soia: “La mia ditta la compra a Santa Cruz, nella Bolivia amazzonica e la rivende nel sud del Cile per gli allevamenti di animali, ogni viaggio dura due settimane.” Nella cabina del grande Volvo rosso di Jorge siamo in quattro: io, Alessia, Jorge il conducente e un suo collega che raccogliamo per strada. Fuori la luna illumina la superficie delle montagne sabbiose, i fanali del camion riflettono le luci rosse e gialle delle corsie della strada, all'interno una tenue luce gialla regala un'atmosfera intima. Durante la notte ci superano sfrecciando alcuni camion carichi di ortaggi: cipolle, pomodori e insalate. Chiedo a Jorge: “Vanno a Iquique, è un porto franco per tutta l'America del sud, questi camion hanno una modificazione al motore e vanno più veloci, corrompono la polizia in caso di controlli, immettono sul mercato internazionale frutta e verdura.” Io penso solo che per fortuna attorno a noi c'è solo il deserto perché da come ci sorpassano facendo il filo al camion di Jorge sembrano intenzionati a tirare dritti qualsiasi cosa succeda.

Dormiamo poco lontano da Antofagasta e l'indomani mattina è un altro camion a portarci fino in centro, quello di Marco, che lavora con l'indotto della miniera di Chuquicamata. “Lavoro sette giorni su sette”, ci confida praticamente subito quando saltiamo in cabina “però la paga è buona, se riesco a tenere un anno poi me ne torno dalla mia famiglia nel sud del paese”. A lavorare da queste parti sono prevalentemente stranieri: boliviani, colombiani, peruviani, che qui in Cile trovano un'economia molto più sviluppata. “In questo momento il Cile è la Germania del Sud America.” afferma Marco poco prima di lasciarci. Quello che per il momento abbiamo visto del Sud America conferma le sue parole.

Arriviamondo ad Antofagasta veniamo travolti da una folla di 10'000 persone: è la manifestazione che si sta svolgendo in pieno centro. 10'000 mani nere che andranno a protestare davanti ai cancelli del porto di Antofagasta. Qui hanno da poco aperto un nuovo centro di smistamento per la polvere del rame: tra i lavoratori sono già stati registrati numerosi casi di avvelenamento da piombo. Il porto di Antofagasta e numerose delle sue attività sono di proprietà della famiglia Luksic, una delle sei più ricche del Cile e tra le più ricche del mondo. “Possiedono praticamente tutte le attività miniere della zona, il Banco de Chile e la Compagnia de Ferrocarril” testimoniano alcuni manifestanti. Sembra anche che la famiglia Luksic abbia stretti legami con la presidente del Cile Michelle Bachelet, hanno fatto scandalo le cifre guadagnate dal figlio della presidente grazie a un prestito col Banco de Chile. “Alla prima manifestazione c'erano solo 15 persone” ci racconta Gabriel, “alla seconda già più di cento e oggi, alla terza, siamo probabilmente quasi 10'000. Oggi lanciamo un ultimatum di 15 giorni al governo perché intervenga sulla questione dei depositi di polvere di rame nel porto. Sennò continueremo a protestare.” Lasciamo scorrere il corteo prima di andare a raggiungere la spiaggia e tuffarci finalmente nelle fredde e agitate acque del Pacifico, sperando di non essere sulla corrente di ritorno del porto commerciale.


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