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Rio de Janeiro

All'aeroporto di Rio de Janeiro veniamo accolti da una ventata d'aria calda e tropicale, che sembra portare con sé tutti gli odori del Brasile. Arriva direttamente dai portelloni dell'aereo mentre stiamo scendendo, dopo un viaggio di dodici ore appiccicati allo schermo del sedile e alle serie tv. Praticamente non mi sono neanche accorto di aver compiuto più di 9000 chilometri e il primo segno che mi fa capire di essere in un posto diverso e lontano da casa sono queste ventate d'aria calda. Nei prossimi giorni mi renderò conto che in questo momento a Rio questa non è che una serata fresca e mite.

Prendiamo l'autobus, andiamo verso Niteroi, attraversando il lungo ponte Presidente Costa e Silva che taglia in due la baia della città. Un percorso obbligato che faremo tutti i giorni, rendendoci amaramente conto che il Brasile del miracolo economico degli ultimi anni non ha migliorato granché i trasporti pubblici nella città. Per rientrare a Niteroi la sera ci si impiega più di due ore: il primo giorno abbiamo dovuto chiedere a una dozzina di autisti e impiegati dell'azienda dei trasporti, che non conoscevano per niente orari e linee, prima di trovare la fermata giusta, la seconda siamo fermati da un ingorgo. La terza, semplicemente, l'autista decide di non fermarsi e tira dritto, sfreccia davanti a noi increduli e a una ragazza di colore che impreca, sapendo che il prossimo bus è tra più di mezz'ora se tutto va bene. Tempistiche e problemi che ritroviamo un po' ovunque in varie parti della città, in quasi tutti i quartieri.

I trasporti pubblici sono solo un primo indizio per andare oltre quegli stereotipi mondialmente conosciuti sul Brasile e specialmente su Rio de Janeiro: il samba, il calcio e il carnevale. La città, e con essa il paese, è una realtà molto più complessa. Rio de Janeiro infatti si divide chiaramente in due: la zona nord e la zona sud, ovvero la città delle favelas, abitate prevalentemente da neri, e i palazzi di Ipanema, Botafogo, Flamenco, la spiaggia di Copacabana, Leblon e Urca. Residenza privilegiata dei più ricchi. Linea di frontiera che non esiste sulla carta, ma che è vera e palpabile come tra Sarajevo e Sarajevo Est o come nella Berlino del post comunismo. Il Brasile è il paese della samba è vero, ma solo nei quartieri poveri e popolari denominati favelas. Lì la musica si sente ovunque: per strada, dalle macchine in corsa, nei bar, dalle finestre. I giovani delle favelas sono così abituati ad aver sempre la musica attorno che quando si ritrovano nella silenziosa metropolitana del centro sparano al massimo gli autoparlanti degli I-phone. Disturbando chi a quel silenzio è affezionato.

Le favelas, un altro stereotipo, di cui film come la cidade de deus hanno contribuito solo a diffonderne un'immagine di pericolo e delinquenza dilagante. Quando decidiamo di passare del tempo nel Complexo de Maré, a Mangueira o a Rocinha ci diciamo che il pericolo più grande è che la favela ci piaccia così tanto da non volercene più andare. La povertà c'è, indubbiamente. Le condizioni di vita difficili anche e gli spacciatori di droga nascosti nei vicoletti pure. Però c'è anche la solidarietà, il calore umano, l'empatia e la voglia di vivere. Nel complesso di Mangueira, a pochi passi del mitico stadio Maracanã, la vita scorre tranquilla come in qualsiasi quartiere popolare. Nel bar di Dona Fernanda gli autoparlanti appesi ai pali in ferro della terrazza passano samba tutto il giorno, le bottiglie di birra sono immerse nel ghiaccio e c'è sempre chi viene e chi va. Qualcuno gioca con il biliardo all'esterno, che è tappezzato di adesivi per Dilma Rousself presidente e del Partido dos trabalhadores. Da un barbecue in ferro arrugginito Joao, un grasso manovale sulla cinquantina, con la carnagione nera e gli occhiali da vista alla Gramsci non smette di fare carne alla brace durante tutto il pomeriggio, la fa a pezzi su di un tagliere di legno e la offre a clienti del bar. Io e Alexia riusciamo a passare la giornata così: tra birra, carne e musica. Quando Joao ci vede giocare a carte scopriamo che anche in Brasile giocano a una specie di Scopa, mentre Dona Fernanda tira fuori le sue carte da poker per spiegarci le loro regole.

A qualche metro dal bar c'è il campo da calcio, con più buche che erba sintetica. Circondato dalla rete di recinzione, con ragazzi e bambini più ballerini allo sbaraglio che seriamente impegnati a fare gol, giocano scalzi però di fenomeni alla Ronaldo non ce ne sono: io vedo solo ragazzi che corrono, giocano, cadono e ridono. Per descrivere tutto questo mi passa per la testa una sola e unica frase: “A copa nossa è na rua”: il nostro mondiale è per strada.

Attorno alla recinzione che guarda i bambini giocare c'è anche una pattuglia dell'UPP, l'Unidade de policia pacificadora, indossano i giubbotti antiproiettile, i caschi e gli anfibi: con questo caldo, penso, chi glielo fa fare. Sbadigliano annoiati, mangiano gelati o ridacchiano seguendo con gli occhi i fondoschiena delle favelande che passano. Le UPP sono le speciali unità della polizia carioca, formate per pacificare le favelas dopo che le teste di cuoio del BOPE sono entrate per allontanare a colpi di kalashnikov i narcotrafficanti. La pacificazione delle favelas: evento mediatizzato in tutto il pianeta per rassicurare i turisti e gli investitori economici dei mondiali di calcio 2014 e dei giochi olimpici 2016. I narcotrafficanti, scacciati dalle aree pacificate, hanno trovato rifugio nelle favelas più decentrate ed è logico pensare che, quando la pressione dello stato diminuirà dopo i giochi olimpici 2016. Quando riprenderanno i loro territori lo faranno alla grande, mediatizzando l'evento a modo loro: colpi di fucili, scontri a fuoco con la polizia ed esecuzioni pubbliche per chi ha collaborato. A rimetterci sempre e solo che ha l'unica colpa di non potersi permettere un appartamento in altri quarieri.

Dal 2010 ad oggi nelle aree pacificate la violenza è aumentata e le condizioni di vita dei residenti peggiorate. Dopo quella della polizia chi abitava in favela ha visto una seconda invasione: quella della compagnia elettrica brasiliana, che proponendo un contratto gratuito di proprietà delle case, ufficialmente non registrate in catasto, ha aperto migliaia di contratti utenti. Bollette che la bassa manovalanza carioca non può permettersi di pagare e c'è chi si ritrova costretto a emigrare verso favelas più periferiche o borghi extraurbani fuori Rio. Uno dei casi più eclatanti è quello della bella Vidigal, affacciata sul mare, dove il settore immobiliare brasiliano ha decuplicato gli investimenti: comprando case in favela a prezzi stracciati e rivendendole ai nuovi ricchi. Un aumento dei prezzi così sistematico da lasciar pensare che sia stato organizzato fin dall'inizio.

La pacificazione ha portato con sé anche uno dei maggiori problemi interni alla polizia carioca: la corruzione. La vendita di stupefacenti è passata in più casi nelle mani di agenti corrotti. Tutto questo non ha contribuito che a dividere ancora di più le due parti di Rio: la zona nord delle favelas e la zona sud dei ricchi.

La domenica mattina ci ritroviamo in metropolitana quando un esercito di favelandi si riversa in centro città alla destinazione delle spiagge di Ipanema, Copacabana e Flamenco. Invadono quel centro che dal lunedì al sabato li accetta solo per lavori precari di bassa manovalanza. Sbarcano con sedie, ombrelloni e frigoriferi di polistirolo colmi di ghiaccio, noci di cocco, acqua e birra. Perché la spiaggia è ancora un diritto di tutti. Uno dei pochi per chi abita nelle favelas.

Questa scena da Sabato del villaggio di Leopardi si conclude la sera, quando le stese folle si riversano di nuovo in metropolitana per rientrare a casa, ubriachi di sole e birra. Nei vagoni stracolmi c'è un'atmosfera festiva, un'immagine da carnevale: il tetto della metro utilizzato come cassa di risonanza, battere di mani e gente che urla. Quando l'ultimo treno è passato ritorna il silenzio.

Questa divisione così forte, in spiaggia la si può vedere anche durante la settimana. Basta andare in quella famosissima destinazione del turismo mondiale che è Copacabana. Sul lungomare, sui marciapiedi ci sono esclusivamente bianchi: turisti o residenti, e i soliti venditori di acqua ghiacciata. In spiaggia, sul bagnasciuga, chi resta dopo il tramonto ha prevalentemente la pelle nera, c'è chi pesca, chi ancora fa il bagno, chi fa sport o esercizi, chi passeggia. Ma sono rari i bianchi quando il sole è calato. Perfino la guida Lonely Planet sconsiglia vivamente di andare in spiaggia la notte. La distinzione e la divisione esistono, a volerle vedere.

Nel Brasile della multiculturalità il razzismo esiste, la nuova classe media, arricchitasi con il boom economico del lulismo pretende i suoi privilegi e il centro città deve allargarsi. Le due diverse Rio de Janeiro sono divise dalle montagne e da qualche importante quartiere popolare, che ancora funge da importante cuscinetto, come Benfica o São Cristóvão. Ma la divisione in due della città ormai è già un dato di fatto. Così come i contrasti razziali che ne conseguiranno.

Dopo una settimana tra le temperature asfissianti di Rio mi sento assuefatto dalle sue ventate d'aria calda, come negli stereotipi creati dalla dittatura militare negli anni settanta ho la musica in testa tutto il giorno, giro per strada a torso nudo come i venditori di noci di cocco. Bevo caipirinha il venerdì sera a Lapa e passeggio per Copacabana, però non sul lungomare, in spiaggia. E se me lo dovessero chiedere non esiterei a rispondere: “A zona norte è a Melhor”: la zone nord è la migliore.

Lassù in alto, silhouette dal profilo irraggiungibile, la statua del Cristo redentore che ci osserva tutti. La meta simbolica del nostro viaggio, dove saliremo quando ritorneremo a Rio terminati i quasi 11000 chilometri che ci siamo prefissi di fare in Sud America.


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